Potete leggere l'articolo qui sotto o ascoltare le mie pillole sugli obblighi integrativi su 'A Cavallo di un Cavillo'
Riferimenti normativi:
- art. 2104 c.c.
- art. 2105 c.c.
1. Gli obblighi integrativi
Come ben sappiamo, l’obbligazione principale del lavoratore è lo svolgimento della prestazione lavorativa. Ma affianco all’obbligo cardine del rapporto di lavoro, vi sono anche i c.d. obblighi integrativi, che concorrono a definire la prestazione lavorativa e il suo modo di essere. Gli obblighi integrativi, non sono obblighi autonomi, ma costituiscono dei criteri di valutazione della prestazione lavorativa, per determinare se il lavoratore vi abbia adempiuto correttamente o meno.
Tali doveri posti in capo al lavoratore sono: diligenza, obbedienza e fedeltà.
2. La diligenza
L’art. 2104 sancisce l’obbligo di diligenza del lavoratore: ‘Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende’.
La diligenza indica il complesso di cautele, cure e attenzioni che devono caratterizzare l’esecuzione della prestazione di lavoro.
Il primo comma dell’art. 2104 c.c. stabilisce espressamente che il lavoratore deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione. Non si tratta quindi di una diligenza generica, come potrebbe essere quelle del ‘buon padre di famiglia’ contenuta nell’art. 1176, c. 1 c.c., ma di una diligenza qualificata. E’ più consono il parallelo con il secondo comma dell’art. 1176 c.c. che fa riferimento alla diligenza qualificata che deve prestarsi nell’adempimento di una attività professionale.
Pertanto, il primo criterio per valutare tale diligenza ‘tecnica’ è prima di tutto il riferimento alle mansioni del lavoratore. Il lavoratore deve espletare la prestazione di lavoro con la diligenza richiesta dalla natura delle proprie mansioni. Quindi a seconda delle mansioni espletate sarà richiesta una diversa diligenza. Inoltre il grado di diligenza richiesto differisce anche a seconda del livello nella gerarchia aziendale, è chiaro che la diligenza richiesta da un dirigente sarà differente da quella richiesta ad un semplice impiegato o operaio. Il profilo professionale del lavoratore delinea la diligenza minima richiesta per adempiere correttamente all’obbligazione lavorativa. Il parametro di valutazione sarà quello del soggetto in possesso delle esperienze e competenze richieste per svolgere quella determinata mansione.
Ritorna quindi il concetto dell’importanza dell’informazione rispetto alle mansioni che il lavoratore deve svolgere: è necessario che il datore di lavoro informi adeguatamente il lavoratore rispetto alle mansioni da eseguire e ai compiti specifici che gli sono assegnati. Un lavoratore non informato non potrà essere colpevole di non aver svolto correttamente la propria mansione. Così come, d’altra parte, non si potrà pretendere che un lavoratore non specializzato o non formato in materia, possa adempiere adeguatamente ai compiti assegnati.
Anche in caso di modifica delle mansioni o di promozione è necessario indicare compiutamente i nuovi compiti e le responsabilità richieste, affinché il lavoratore sia conscio che la sua prestazione verrà valutata con standard differenti e possa conformarvisi.
Da qui il collegamento con il secondo punto caratterizzante la diligenza: il lavoratore deve eseguire con disciplina le disposizioni impartite dal datore di lavoro o dai collaboratori dai quali dipende gerarchicamente. Di nuovo diviene fondamentale una corretta informazione rispetto ai compiti da svolgere. In presenza di disposizioni chiare e precise, il lavoratore è tenuto ad adempiervi con la diligenza richiesta.
Inoltre, la prestazione di lavoro deve essere espletata non solo con diligenza ma anche nell’interesse dell’impresa e quello superiore della produzione nazionale.
Il primo punto sta a significare che la prestazione di lavoro deve essere espletata nell’interesse delle esigenze organizzative dell’impresa. Tale impostazione sottolinea che l’interesse ultimo a cui fare riferimento è quello del datore di lavoro, che è creditore della prestazione lavorativa e che affinché questa sia svolta adeguatamente deve coordinarsi con quella svolta dagli altri lavoratori. Il fine ultimo è quello del buon andamento dell’impresa, al quale devono diligentemente concorrere tutti i lavoratori con le capacità e la perizia richieste dal proprio ruolo professionale.
Non è invece necessario soffermarsi sull’interesse superiore della produzione nazionale, in quanto espressione e criterio arcaico, rimasuglio dell’impostazione corporativista dell’epoca fascista e non più utilizzato.
1.2 La negligenza
Il lavoratore può dirsi negligente quando, secondo la normale esperienza non utilizza la diligenza richiesta per l’espletamento delle particolari mansioni assegnate. Come dicevamo il criterio ovviamente cambia anche rispetto al ruolo del lavoratore nell’azienda.
La negligenza, ossia l’errore del lavoratore nell’esecuzione della prestazione, può essere dovuto anche da colpa. Non è richiesto che vi sia del dolo, quindi l’intenzionalità nel voler commettere un errore e quindi arrecare un danno al datore di lavoro. Ciò significa che potrà essere imputato al lavoratore, sia l’errore colpevole che incolpevole dovuto a buona fede. Infatti, la negligenza del lavoratore può portare anche ad un provvedimento disciplinare, che a seconda delle circostanza (ruolo del lavoratore, mansioni, gravità dell’errore, reiterazione dell’errore e danni causati) sarà più o meno grave, fino ad arrivare in casi estremi al licenziamento.
2. L’obbedienza
Il dovere di obbedienza è espresso dal secondo comma dell’art. 2014 c.c. per cui il lavoratore ‘deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende’ e di cui abbiamo parzialmente già parlato in relazione alla diligenza.
L’ obbligo di obbedienza discende dal potere direttivo del datore di lavoro nei confronti del lavoratore ed è parte del concetto di subordinazione. Il lavoratore è subordinato al datore di lavoro, in quanto svolge la prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art. 2094 c.c.).
Il dipendente è pertanto sottoposto al potere direttivo del datore di lavoro e ha il dovere di obbedire alle disposizioni impartite. Il lavoratore deve sottostare anche alle direttive impartite dai collaboratori del datore di lavoro e ai quali sia gerarchicamente sottoposto. Tale dicitura sottolinea la persistenza della gerarchia aziendale, andando a sottolineare l’importanza dei ruoli e delle responsabilità. Sicuramente tale concetto di obbedienza sottolinea come comunque vi sia squilibrio tra la posizione contrattuale del datore di lavoro e quella del lavoratore, che appunto è tenuto all’obbedienza, che come vedremo in seguito di certo non può ridursi a bieca esecuzione di qualsiasi capriccio del datore.
Ad ogni buon conto, le direttive cui deve attenersi il lavoratore possono riguardare:
l’esecuzione del lavoro, ossia gli aspetti relativi all’organizzazione e alle modalità di svolgimento della prestazione (mansioni, luogo, orario di lavoro…);
la disciplina del lavoro, ossia la regolamentazione della convivenza della comunità dei lavoratori (codice disciplinare).
** Proprio in virtù dell’obbligo di obbedienza e ricollegandoci al tema delle mansioni e al potere di jus variandi del datore, bisogna precisare che il lavoratore non può rifiutare a priori l’adempimento di una prestazione non corrispondente alla propria qualifica. Come già sottolineato nel precedente articolo, la modifica delle mansioni (eventualmente anche in pius) da una parte è espressione del potere direttivo datoriale e dall’altra è giustificata dal dovere di obbedienza del lavoratore.
Certo questo non significa che il lavoratore debba obbedire biecamente ad ogni capriccio del datore di lavoro, in ogni caso vi sono dei limiti al potere di ius variandi. Se in un primo momento il lavoratore sarà tenuto ad accettare il mutamento di mansioni, a posteriori potrà agire in giudizio per farne riconoscere l’eventuale illegittimità.
3. La fedeltà
L’obbligo di fedeltà è espresso dall’art. 2105 c.c.: ‘ Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio’.
L’obbligo di fedeltà consiste nell’ulteriore dove posto in capo al lavoratore e a tutela dell’interesse dell’imprenditore alla capacità di concorrenza e competitività dell’impresa. Possiamo dire che quest’obbligo è posto a tutela del know how aziendale e discende dai più generici principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Il lavoratore è tenuto ad avere un comportamento leale nei confronti del datore di lavoro e a tutelarne gli interessi.
In concreto, l’obbligo di fedeltà si distingue in due diversi doveri: divieto di concorrenza e riservatezza.
** Oltre alle condotte specifiche di divieto di concorrenza e obbligo di riservatezza, proprio in virtù dei principi generali di correttezza e buona fede, è vietata anche qualsiasi condotta che per la natura e le possibili conseguenze, si ponga in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nell’impresa e che possa generare conflitti con le finalità della stessa o che in ogni caso sia idonea a ledere il presupposto fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.
3.1 Divieto di concorrenza
L’art. 2105 c.c. fà espresso divieto al lavoratore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore.
Il dipendente pone in essere un comportamento concorrenziale nei confronti dell’azienda quando:
svolge attività che sono potenzialmente in grado di provocare un danno all’azienda;
predispone una serie di strumenti concorrenziali senza tuttavia trarne alcun profitto ma semplicemente violando la fiducia dell’azienda.
Il divieto di concorrenza trova fondamento nel rapporto contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore, pertanto cessa nel momento in cui si estingue il rapporto di lavoro.
** Patto di non concorrenza
Le parti possono stipulare un patto di non concorrenza, che impegni il lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto a non porre in essere attività, sia in proprio che per conto di terzi, in diretta concorrenza con quelle svolte dal precedente datore di lavoro e per un determinato periodo di tempo.
Il patto di non concorrenza può essere stipulato in qualsiasi momento e nei confronti di qualsiasi dipendete, a condizione che svolga mansioni in grado di arrecare un pregiudizio all’impresa, se svolte in concorrenza.
E’ necessario che il patto sia stipulato in forma scritta, pena la nullità. Inoltre non può essere generico, ma deve fare riferimento ad una o più determinate attività, deve fare riferimento ad una particolare zona geografica e deve avere un limite temporale (massimo tre anni o 5 anni per i dirigenti). Infatti, non è ammissibile che un lavoratore venga vincolato a tempo indeterminato nei confronti della precedente azienda.
Inoltre, deve sempre essere previsto un adeguato compenso a fronte del patto di non concorrenza. Qualora il patto non rispetti queste condizioni sarà affetto da nullità.
3. 2 Obbligo di riservatezza
L’art. 2105 c.c. fa inoltre divieto al lavoratore di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo tale da arrecare un pregiudizio alla stessa.
L’obbligo di riservatezza è posto a tutela dell’interesse aziendale a mantenere segreti particolari notizie relative all’organizzazione, ai metodi e ai risultati produttivi dell’impresa. L’obbligo perdura anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro e per un ragionevole lasso di tempo.
E’ vietata la diffusione di notizie inerenti il c.d. know how aziendale, ossia il pacchetto di nozioni sviluppato dall’azienda e non rinvenibile altrimenti. Si tratta del sapere di cui il lavoratore è venuto a conoscenza in virtù del proprio ruolo aziendale e che non avrebbe potuto reperire altrimenti.
In particolare, la condotta del lavoratore può dirsi in violazione dell’obbligo di riservatezza quando è tale da arrecare un pregiudizio all’impresa. Tale danno, nel concreto, consiste nell’utilizzo delle informazioni di cui sopra per attività concorrenziali o per denigrare l’azienda.
Al contrario non rappresentano condotte in violazione dell’obbligo di fedeltà:
l’utilizzo delle informazioni aziendali nell’ambito di un’attività esterna all’impresa se queste rappresentano il bagaglio di conoscenze professionali acquisite dal dipendente;
l’utilizzo delle informazioni aziendali da parte del dipendente nell’ambito della sua attività di sindacalista o politico, laddove questo rappresenta l’esercizio di un diritto di critica per quanto riguarda le condizioni di lavoro.
** Un importante deroga all’art. 2015 è prevista dalla L. 179/2017, per i lavoratori che prestano segnalazioni circostanziate di condotte illecite, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte, secondo i modelli di organizzazione e di gestione aziendale regolamentati dall’art. 6 D.lgs 231/2001. Trattasi del c.d. Whistleblowing. In tali casi, rispetto all’interesse aziendale prevale il perseguimento dell’interesse all’integrità dell’azienda privata, nonché la repressione delle malversazioni e pertanto la violazione dell’obbligo di riservatezze è giustificato.
Certo, affinché sia presente la giusta causa, è necessario che le informazioni sia circostanziate e precise, infatti la rivelazioni di informazioni eccedenti rispetto alle finalità di eliminazione dell’illecito potrebbe comunque essere considerata in violazione dell’obbligo di fedeltà.
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